Pochissime persone al mondo sanno cosa feci a sette anni, una domenica mattina.

Ero una bambina come tante altre, timidina con gli estranei e vulcano in famiglia, di una vivacità incontenibile e inarrestabile. Mandata a scuola troppo presto, al compimento dei miei cinque, e come tanti bambini degli anni ’80 poco vista, considerata e guidata.

Questo aveva un rovescio della medaglia: mi sentivo libera (fino a quando non la facevo così grossa da essere fermata e richiamata.)

Quella mattina i miei genitori erano andati in campagna come spesso solevano fare, lasciandomi in casa con mio nonno ottantacinquenne e mia sorella di nove.

Quella mattina capii che era il momento giusto per mettere in atto un piano che progettavo da tempo.

Quella mattina decisi che la convivenza con mia sorella nella cameretta doveva finire! I nostri continui litigi minavano il mio benessere interiore ed era arrivato il momento di agire!

Cosa avrebbe fatto una bambina di sette anni? Avrebbe strepitato, richiesto con insistenza una nuova stanza, avrebbe pianto?

Tu cosa avresti fatto?

Vivevamo in una casa molto grande in cui mia madre aveva realizzato, da tre stanze, un gigantesco salone delle feste e solo due camere da letto. Quindi l’opzione casa nostra era da escludere. Vivevamo, tuttavia, nello stesso pianerottolo con mio nonno che aveva anche lui una bella casa spaziosa. La stanza che comunicava con casa sua era stata “aperta” con una porta ed era divenuto un posto di passaggio dove si trovava il telefono. Anche quella scartata. Poi vi erano la camera da letto di mio nonno, un grande salone, l’intoccabile e inavvicinabile sacro studio di mio padre e una stanzetta angusta dove mio nonno teneva un secondo frigorifero. Nato il 31 maggio del 1902 mio nonno Gaspare aveva vissuto due guerre mondiali ed era letteralmente ossessionato dall’accumulo di oggetti “che potevano sempre servire” e dalle scorte di cibo. Puntai il salone come meta dei sogni, luogo di pace e tranquillità.

La casa di mio nonno era piuttosto buia, non apriva mai tutte le tapparelle e quella grande stanza isolata avrebbe fatto terrore a chiunque. Non a me.

Quella mattina decisi che sarei andata a dormire nel salotto di mio nonno.

Lo so cosa state pensando: “Germana si sarà presa coperta e cuscino e si sarà andata ad accucciare sul divano di suo nonno.” Beh, poteva avere un senso se immaginate il divano di casa vostra. Come l’avete? Angolare? Spazioso? Morbido? E no miei cari!! Mio nonno era del due, ricordate?! Aveva un salottino in velluto della metà dell’800 rigido come una tavola di legno, con molle grosse e dure come il marmo.

“E allora? Cosa hai fatto Germana, vuoi dircelo?”

Quella mattina ho traslocato.

Sì avete capito bene.

Quella mattina dei miei sette anni mi sono portata a casa di mio nonno: letto di legno con contenitore porta pigiama, materasso e armadio!! Più ovviamente tutti gli accessori come lenzuola, vestiti e peluche.

Quando i miei tornarono e trovarono la colonna armadio smontata e me, felice e soddisfatta, che giocavo nella mia nuova stanza tremarono i vetri della casa.

Quello fu il primo dei miei traslochi interni: negli anni occupai la stanza del telefono, poi la stanza del frigorifero, fino ad arrivare al sacro studio di mio padre che divenne il mio salottino ai tempi dell’università.

Ogni cambiamento mi portava fuori dalla zona di comfort, quel posticino o quella situazione che anche se scomoda o dolorosa, ci da sicurezza. Il trasloco non a caso è uno fra gli eventi più stressanti della vita.

A cosa ci serve uscire da questo luogo così prezioso? Innanzitutto a crescere e maturare, perché soprattutto davanti le difficoltà l’essere umano sperimenta la sua Forza e la sua preziosissima capacità di problem solving. E poi a vivere meglio tutte le volte che quell’abitudine, in realtà, è tossica e ci danneggia.

Quando si spegnevano le luci del grande salone e restava tutto buio io ricordo un leggero brivido lungo la schiena ma io guardavo fermamente il mio risultato: ero in pace.

Nella vita ho perso il conto di quanti traslochi “veri” ho fatto, quante città ho cambiato e quante valige ho fatto dicendomi: “si ricomincia!”

Oggi che traslochi veri non ne faccio più da nove anni ho deciso di fare un altro importante cambiamento: trasferire online le mie competenze al servizio delle persone.

Qualche settimana fa sono andata da mia nipote sedicenne e le ho detto: aiutami a usare Instagram! E così dopo anni di assenza dal mondo “social” e molta presenza nel mondo “in carne e ossa” ho realizzato che se voglio aiutare più persone, in questo momento sociale così difficile, devo farlo attraverso altri canali.

Sto uscendo dalla mia zona di comfort, dal mio studio sempre colmo di pazienti e sto per entrare in un mondo a me quasi ignoto che è quello di Instagram e dei podcast su Spotify. Mi consola la mia lunga esperienza ormai decennale di terapie online, iniziate quando esisteva solo Skype come piattaforma per le videocall e oggi trasferite su Zoom (Di fatto unico modo per incontrare i miei pazienti in Inghilterra, Francia, Belgio e Australia.)

Sono entusiasta dei miei nuovi progetti che vi condividerò a breve, e mi chiedo se oggi quel brivido lungo la schiena lo sentirò ancora. Nel caso avvenga so già che dovrò tenere ben saldo nella mia testa il mio obiettivo e perché lo faccio, questo è il primo passo verso il cambiamento!